Le guide
Carlo Giuseppe Ratti
Carlo Giuseppe Ratti, nella sua Guida per la città di Genova, si dedica principalmente ad una semplice enunciazione delle opere che Perino del Vaga eseguì nel nobile Palazzo del Principe Andrea Doria: «la volta piena di stucchi, con grottesche, e storie varie sì nei scomparti della volta che nelle lunette», «le pitture di figurine assai leggiadre, che ornan le scale», e «la sala dove l'artista colorì il Naufragio d'Enea, opera che per esser stata da lui lavorata sul muro ad olio è oramai del tutto perduta». Degno di visita, per il Ratti, è il boschetto al di sopra del palazzo, «in cui entro una gran nicchia vedesi in istucco una smisurata statua di Giove, appiè della quale leggesi in marmo una curiosa iscrizione in memoria d'un cane, che il Principe Giovan Andrea d'Oria aveva ricevuto dall'Imperador Carlo V»
Anonimo Genovese
La descrizione di Palazzo del principe Doria, fatta dall'Anonimo Genovese nel 1818, verte essenzialmente sulla descrizione delle opere presenti nell'edificio, sia pittoriche sia scultoree. Entrando nel portico del palazzo lo scrittore viene attirato dalla «volta piena di stucchi con grottesche e storie diverse, sia nei scomparti della volta che nelle lunette, rappresentante cose armigere e battaglie varie lavorate dal celebre Perino del Vaga con deità ne' triangoli, ed alcuni putti in marmo del Montorsoli». L'affresco che colpisce maggiormente l'autore è quello con il Trionfo di Scipione dello stesso Perino, «il secondo discepolo dopo Giulio Romano del grande Raffaello». Di lui sono pure le «belle pitture di grottesche e le figurine assai leggiadre che adornano le scale, come anche quelle della loggia alla fine di queste. Essa ha in testa due nobili porte, sopra i frontespizi delle quali veggonsi due figure assai graziose». L'Anonimo rimarca come la prima opera che, in questo palazzo, eseguì questo pittore fu «la sala a man sinistra della loggia, anch'essa ornata con suo disegno di stucchi dove colorì il Naufragio di Enea, opera che per esser stata da lui lavorata sul muro all'olio è oramai del tutto perduta». Simile disgrazia, però, non ha sofferto la pittura dell'altra sala, perché come ricorda lo stesso scrittore: «questa fu da lui lavorata su fresco, in cui ha con estro ed espressione meravigliosa figurato Giove che fulmina i giganti, e vi sono ignudi molto maggiori del naturale». Questa sala e le quattro camere vicino alla galleria sono «tutte messe a stucchi lavorate a grottesche, sempre però con suo disegno, da Luzio Romano e da altri lombardi». La faccia meridionale del palazzo, come nota l'Anonimo, presenta quattro belle gallerie scoperte che avanzano a sud, sopra il cortile. Da questo «discendesi al giardino che ha una gran fontana nel mezzo, Nettuno tirato da cavalli marini, statua colossale in marmo bianco condotta da Taddeo Carlone». Su tutta la larghezza del giardino e a mezzogiorno di esso, lo scrittore rimane colpito dalla bellezza del terrazzo «sopra altre loggie da trenta colonne doriche di marmo formato, gallerie coperte da cui si ha la veduta di tutto il porto fra i due moli compreso, e la prospettiva interna della città su di esso situata». Sulla gran piazza si trova «un'atra porta con loggia o galleria al di sopra coperta verso il nord, e a mezzogiorno a foggia di terrazzo ridotta». Tutte le loggie di cui sopra sono «da belle colonne di marmo formate». Sul cortile che sporge in avanti, tra la facciata meridionale e il giardino, ci sono «altri due piccoli giardini con aranci e fiori, aventi ciascuno una fontana». Di quello a levante l'Anonimo descrive la vasca con un satiro eseguito dal Montorsoli, del quale «son pure nell'atro a ponente alcuni bei putti che versano acqua»
Jacob Burckhardt
Burckhardt cita più volte il nome del Palazzo Doria nella sua guida, così come cita spesso anche il nome del suo più prolifico artista: Perino del Vaga. A quest'ultimo si devono gli interni dell'edificio genovese, ma, dalle parole dello scrittore, sembra emergere un confronto quantomeno negativo rispetto alle opere precedenti dello stesso artista. Per quanto riguarda la decorazione Burckhardt afferma: «la parte decorativa è ancora molto bella, ma in parte di una grazia esagerata, e non dimostra più lo spirito libero e largo delle Logge e dell'appartamento Borgia». E ancora: «Nella sala a pianterreno il soffitto è coperto con rappresentazioni tolte dalla storia romana, di effetto pesante, invece dell'arioso Olimpo della Farnesina; nella galleria gli ornamenti della volta sono assai eleganti nei particolari, ma non sono più subordinati all'architettura con la stessa sicurezza». L'autore continua la sua trattazione con un'analisi architettonica del palazzo. I suoi elementi « appaiono ridotti al minimo e l'effetto principale è riservato alle pitture di figure e di storie (quasi tutte distrutte sull'esterno e sostituite con un intonaco giallo)». Inoltre «le inquadrature sottili delle finestre, la mancanza di pilastri ed in genere la sobrietà dei profili danno ora all'edificio un aspetto quattrocentesco». Burckhardt termina il suo discorso fornendo un giudizio critico complessivo, che possa rispecchiare al meglio le caratteristiche visive dell'edificio: «come costruzione di libera fantasia, senza composizione rigida, con le sue logge ariose all'estremità e con le terrazze pensili sui portici sporgenti nel giardino, esso ha un fascino meridionale non superato forse da alcun palazzo italiano»
Federico Alizeri
Nella sesta e ultima giornata della Guida turistica per la città di Genova, Alizeri analizza in modo dettagliato e puntuale il Palazzo del Principe Andrea Doria a Fassolo. L'autore, all'inizio della sua trattazione, si sofferma nel ricordare come in quella zona, già dal XIV secolo, sorgesse un «nobile edificio», ma di tutt'altra forma e con attorno un apparato di natura molto più scabro e spoglio. Solo dopo il 1522 il palazzo, insieme al circostante podere, divenne dominio del prode Andrea Doria, che si impegnò da subito a trasformarlo in un luogo di delizie per sé e per i suoi successori. L'opera fu terminata, in buona parte, nel 1529 come enuncia la scritta in latino incisa sopra una fascia di marmo, lungo il prospetto dell'edificio. Alizeri la nota e ne riporta letteralmente il testo. Dopo una breve rassegna delle singole personalità, artisti o invitati, accolti da Andrea Doria; lo scrittore passa ad una precisa e articolata descrizione di ambienti ed opere presenti nel palazzo. Le due logge, opera di Giovanni Angelo Montorsoli, appaiono ai suoi occhi di «semplice ed elegantissimo stile» ed il loro accorpamento ebbe notevole rilevanza: grazie ad esse l'edificio assunse nuova forma e nuova ampiezza. All'architetto del corpo centrale, Perino del Vaga, è invece attribuita la realizzazione del «bel portico», esempio di quel «leggiadro e ricco stile ch'egli aveva adottato facendo ingegnosa miscela del raffaellesco e del michelangiolesco». Qui l'Alizeri si sofferma cercando di distinguere l'operato del maestro da quello dei suoi collaboratori. Infatti Perino ebbe, in quest'occasione, un importante aiuto dai fratelli Cosini. A loro venne affidata la realizzazione delle quadrature e delle statue. Il portale è ornato «d'un frontispizio sorretto da colonne striate d'ordine dorico, sul quale seggono due figure di femmina che tengono lo stemma dei Doria, e presso a queste due putti in atto di reggere ghirlande di frutta e fiori». Il portico impressiona Federico Alizeri per la qualità degli affreschi. Essi ricoprono le volte a crociera «tutte ornate di cornici e fregi in istucco» e racchiudenti, in venti lunette, «altrettanti trionfi militari, forse que' di Scipione, se non mentono i caratteri». Divinità mitologiche e grosse teste di venti sono raffigurate nelle vele ed in tutti i peducci e «s'altro rimane, è sparso di grottesche e di invenzioni fantastiche». L'autore precisa come l'intera area «sia stata sottoposta ad un recente e accurato restauro» per volere di Napoleone Bonaparte quand'egli v'alloggiò. Tuttavia Alizeri ne lamenta la mancata aderenza allo stile originale («il Paganelli non impastò sull'imitazione di Perino ma direi con l'imitazione di se stesso»). In seguito egli descrive la loggia, detta degli eroi per i dodici guerrieri della famiglia che Perino vi effigiò in proporzioni colossali. Alizeri rimane colpito dalla sua perfetta distribuzione architettonica, che permette ai visitatori di godere dell'incantevole vista del mare e dei giardini sottostanti. Anche il soffito attira il suo sguardo per la somma bellezza delle decorazioni e quadrature «vuoi di pitture, vuoi d'oro o di plastica che tutta la cuoprono». Maggiore attenzione è riservata, tuttavia, ad un spazio di forma ottagonale in cui l'artista «lasciò arbitrio alla storia». I soggetti di tale raffigurazione gli sono sconosciuti (eccezion fatta per le due medaglie raffiguranti Muzio Scevola che mette la mano sull'ardente brace e Orazio Coclite sul ponte), resta comunque evidente il prezioso apporto di Perino, che nelle mezzelune ricavate dalle volticelle «acconciò vaghissimi scherzi di putti con ghirlande di trofei». Sull'esempio di Michelangelo, si mostrò «valente anatomista e disegnator del nudo» ed, alle otto figure presenti nelle sovraporte, aggiunse «una varietà nelle carni e negli abiti» che per Alizeri «par prodigio d'affresco». Segue, nella descrizione, la sala dove Perino mostrò al meglio il suo «prediletto studio dei nudi» e dove sintetizzò vari momenti dell'episodio della Caduta dei Giganti. Queste sono, in proposito, le parole di Alizeri: «vi parlerà questa scena d'orrore [...] in ogni linea è ricerca di forza e di robustezza assai più che di grazia. Più che la natura v'ha parte l'ideale, e più che il dettaglio vuol guardarsi il complesso». Altre stanze di minor conto vengono descritte brevemente dal viaggiatore, tra le quali: una camera isolata, quattro camere adorne di pitture e di stucchi dorati e il gabinetto che «i mali patiti avean consigliato i possessori a velarne la decorazione con fogliami e intrecci di tutt'altra maniera». Dopo altre brevi considerazioni sugli appartamenti a sinistra della loggia, l'autore termina la sua visita descrivendo accuratamente il giardino del palazzo «piantato di fiori ed aranci, e con acque nel mezzo uscenti in isprazzi e getti da leggiadre ed artificiose fontane» e la famosa fontana del Nettuno «scolpito a metà del bacino in atto di domar l'elemento,e di reggere freno a' cavalli marini»
I viaggiatori
Charles de Montesquieu
Montesquieu in un brano del suo Addio a Genova analizza, in modo chiaro e sintetico, il Palazzo del Principe Doria. Il giardino antistante sembra l'elemento che attira maggiormente la sua attenzione. Infatti, lo scrittore rimane letteralmente affascinato dalla sua «posizione incantevole»; da lì «si vede tutta la città, i due moli e il mare». Al centro di esso osserva un laghetto (allude alla fontana) «degno di Versailles», con al centro Nettuno, armato di tridente e trainato da tre cavalli marini. Attorno vi sono «uccelli posati su tartarughe, delfini, tritoni da cui zampilla l'acqua». In fondo al giardino, Montesquieu nota una scala che porta ad una terrazza. Su di essa «è stato profuso un marmo bianco molto bello». Lo scrittore racconta come un tempo, da quella terrazza, si potesse scendere addirittura fino al mare, dove era situata la porta della città e questo fu uno dei tanti privilegi concessi alla famiglia Doria. In Lettera a Genova (sempre tratto da Addio a Genova), Montesquieu torna a parlare del giardino di Palazzo del Principe rimarcando nuovamente la sua posizione ideale e l'incantevole panorama del porto di Genova.
Sil'vester Ščedrin
In Dalle lettere del 1829, Sil'vester Ščedrin descrive con parole di meraviglia i maestosi palazzi e le magnifiche scalinate di marmo bianco presenti a Genova, ma non trova affatto interessante Palazzo Doria. Lo definisce, anzi, usando termini in controtendenza: «il Palazzo è insignificante»
Sibilla Mertens Schaaffhausen
In una lettera datata 4 giugno e contenuta nella raccolta Dalle lettere (1835), Sibilla Mertens Schaaffhausen ricorda una sua passeggiata, con l'amica Laurina, nei giardini del Palazzo di Andrea Doria. Eccone le impressioni: «era l'ultima volta che andavo sulle terrazze, sotto le arcate marmoree. Mi sedetti sul bordo della grande vasca circondata d'aquile al cui centro Nettuno con le fattezze del grande Andrea conduce i cavalli marini. Dietro a me la città, di fronte il mare azzurro»
Paul de Musset
Nel suo libro Voyage pittoresque en Italie, partie septentrionale, de Musset dedica diversi capitoli alla città di Genova e, in particolar modo, alla descrizione di alcuni dei suoi palazzi più significativi. Senza dubbio, tra essi spicca «le palais Doria». De Musset, giungendo dal mare, ha subito modo di notare alcuni notevoli particolari di esso, come le bellissime terrazze stracolme di fiori che donano al giardino un aspetto quasi esotico. Inoltre, ad una visione più ravvicinata, rimane profondalmente colpito dalla posizione, dalla grandezza e ricchezza dell'edificio genovese, tanto da considerarlo «une résidence princière ou royale». La descrizione dell'autore continua. Queste sono, in proposito, le sue parole tradotte letteralmente al fine di mantenere inalterato il loro significato più intimo: «il palazzo è situato all'estremità della curva che descrive la riva del mare, ben oltre questa "muraglia cinese" che cela al passante la vista del Mediterraneo; di modo che si usufruisca allo stesso tempo della prospettiva del porto, del mare pieno e della città». Lo scrittore ricorda inoltre l'impegno di Andrea Doria nell'ingrandire il palazzo, nonché la sua attenzione nello scegliere i migliori artisti per farne decorare gli ambienti: «l'architetto Giovanni Angelo Montorsoli diresse le costruzioni; Galeazzo Alessi disegnò il giardino; Perino del Vaga ricoprì i muri di affreschi; i fratelli Carlone si divisero le statue [...]». Agli occhi di Musset, il palazzo si mostra completo di due gallerie, una di esse si presenta con «colonne di marmo bianco, sormontata da una terrazza»
Alexandre Dumas
Alexandre Dumas, in Impression de voyage del 1841, esprime tutta la sua meraviglia alla vista del Palazzo Doria e lo definisce «il re del golfo». L'autore, salendo i suoi larghi scaloni, ebbe modo di ammirare i «numerevoli affreschi imitati dalle logge Vaticane, e dipinti da Perin del Vaga, uno dei migliori allievi di Raffaello». Dumas nota come il palazzo si trovi tra due giardini: «uno situato oltre la strada, s'innalza con la montagna ed è in comunicazione col palazzo per mezzo di una galleria; l'altro è attiguo al palazzo stesso e conduce ad un terrazzo di marmo che domina il golfo». Su questo terrazzo lo scrittore ricorda alcuni aneddoti relativi al passato stile di vita a palazzo. In particolare narra di quando, proprio lì, Andrea Doria dava «agli ambasciatori i famosi banchetti serviti in vasellame d'argento, rinnovato tre volte e che, dopo ogni servizio veniva gettato in mare [...] è molto probabile che sott'acqua vi fossero nascoste alcune reti, mediante le quali piatti e boccali venivano ripescati l'indomani; ma questo è un segreto dell'orgoglio dogale che non è mai stato rivelato». Infine, continuando la sua visita, Dumas si ritrova davanti alla colossale statua di Giove dove «s'eleva il monumento funerario del famoso cane Radam, donato da Carlo V ad Andrea Doria e che, essendo morto durante l'assenza del Doria, fu sotterrato ai piedi di quella statua affinché, come dice il suo epitaffio, anche da morto non cessasse di custodire un dio»
Blasco Ibañez
Nel suo libro En el pàis del arte' del 1896, lo scrittore Blasco Ibañez racconta del suo viaggio a Genova e della sua meraviglia provata di fronte ai palazzi di questa città. Fra di essi, per l'autore, il più interessante è il Palazzo Doria. Ecco le sue parole in proposito: «il gigantesco edificio con le sue grandi iscrizioni latine sulla vecchia facciata si trova sulla riva del mare sopra una collina che domina una grande estensione del Mediterraneo [...] i venti umidi del golfo entrando attraverso le colonne di marmo, coprono oggi le mattonelle dei cortili e dei marciapiedi del giardino abbandonato, di un muschietto verdastro che obbliga a camminare con precauzione». Ibànez racconta come alcuni "ambienti" del palazzo siano stati modificati rispetto al passato: «il piano terreno, dove avevano il loro quartiere i marinai che combatterono a Lepanto e dove venivano custodite le armature con le quali i Doria comparivano sul ponte delle loro navi come statue d'acciaio, ora servono da alloggiamenti a una parte di inglesi e americani che hanno posto in essi i loro uffici e i loro depositi di liquori, ferri e cotone». L'autore continua la visita ai piani superiori, in una vasta galleria ricca di affreschi del Bonaccorsi e dalla cui balaustra «si vedono le verdastre statue del giardino e il grandioso porto con la sua selva di alberi e di cordami». Più all'interno si trovano i saloni della famiglia, con «i loro giganteschi caminetti; i loro letti monumentali coperti di solido velluto; le loro poltrone che sembrano conservare ancora l'orma degli antichi padroni [...]». Infine, in uno dei saloni, Ibànez osserva un gran quadro raffigurante «l'immensa armata genovese in ordine di combattimento, ripartita in divisioni con le sue vele triangolari gonfie, le fiamme sventolanti, con i bordi fitti di cannoni e bombarde [...]»
Nei pressi del Palazzo
L'Hotel sulla collina del Principe (ovvero l'Hotel Miramare di Genova)
Fino a tutto l'Ottocento, lo spostamento da una città all'altra o, ancor più, da una nazione all'altra era privilegio di pochi. Allo stesso modo, nelle prime decadi del XX secolo, la parola turismo non aveva ancora assunto il significato di "fenomeno di massa" che convenzionalmente gli si attribuisce oggi. Verso i primi anni dell'era moderna la meta più usuale per un viaggio della nobiltà anglosassone o mitteleuropea era soprattutto la riviera di ponente, fino all'estrema periferia di Pegli, con i suoi palmizi e le passeggiate lungo il mare. Attorno al 1920, lo spostamento del flusso di illustri visitatori verso il centro di Genova si fece più massiccio. La città scopriva, all'improvviso, una vocazione turistica che, seppur con brevi intervalli, non l'avrebbe più lasciata. In questo contesto nasceva un piccolo fenomeno di costume, quello dell'Hotel Miramare. Meta di attori, teste coronate, statisti, esso era un albergo -si direbbe oggi- a quattro stelle, destinato ad una clientela non comune. Il celebre scrittore Francis Scott Fitzgerald, che vi trascorse una notte del 1924 assieme alla moglie Zelda, darà una descrizione illuminante di quest'albergo in L'età del jazz (1934): «Il Miramare di Genova inghirlandava la curva oscura della spiaggia con festoni di luce e la sagoma delle montagne faceva spicco sullo sfondo nero grazie al riverbero delle finestre degli alberghi più in alto [...]». Altri tempi ed, evidentemente, altri alberghi verrebbe da pensare. E dalle alture sopra il porto, fra i palmizi del giardino dell'hotel, il remare per ritrovarsi proiettati verso il passato -alla maniera del Grande Gatsby- doveva sembrare un esercizio dolce, anche per lo scrittore che stava segnando un'epoca letteraria.
Bibliografia
Alizeri F., Guida illustrativa del cittadino e del Forestiero per la città di Genova e sue adiacenze, Genova, Dambolino, 1875, rist. anastatica Forni, pag. 75 e ss.
Burkhardt J., Il Cicerone. Guida al godimento delle opere d'arte in Italia, Firenze, Sansoni, 1952, pag. 13.
Dumas A., Impression de voyage. Une année à Florence, Parigi, 1841.
Ibanez V., En el pàis del arte. Tres meses en Italia, Madrid, 1896, pag.53.
Marcenaro G. (a cura di ), Šcedrin S. Dalle lettere in Viaggiatori stranieri in liguria, De Ferrari, 1990, pag. 59.
Marcenaro G. (a cura di), Schaaffhausen S. M. Dalle lettere in Viaggiatori stranieri in liguria, De Ferrari, 1990, pag. 63.
Musset de P., Voyage pittoresque en Italie, partie septentrionale, Parigi, 1855.
Pinelli P. L. (a cura di), Montesquieu de C. L. La Repubblica di Genova e Lettera su Genova in Addio a Genova, Genova, 1993.
Ratti C. G., Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura scultura et architettura autore Carlo Giuseppe Ratti pittor genovese, Genova, Paolo ed Adamo Scionico, 1766, pag. 356 e ss.
Roffo S./Donato E., Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Genova, Newton & Compton 2000, pag.46.
Stendhal H., Mémoires d'un touriste, Parigi, 1837.